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Dizionario delle cose perdute [Francesco Guccini]

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Che cosa c'era una volta?
Quante cose sono andate perdute nel tempo?
Francesco Guccini ha avuto l'intuizione di raccogliere in un piccolo dizionario (a cui ne è seguito un secondo nel corso degli anni) quelle che più gli stavano a cuore. Oggetti quotidiani della sua infanzia e giovinezza che oggi nessun bambino e nessun ragazzo vive più sulla propria pelle. Perché non raccontare, a chi una volta non c'era, che cosa c'era davvero una volta?

Questo Dizionario delle cose perduteè una lettura veloce e semplice, da fare in un paio di serate invernali, vicino al caminetto acceso, là dove in un tempo senza televisione, internet e corrente, le storie venivano narrate e tramandate di padre in figlio in nipote.

C'erano una volta, in un'Emilia di qualche decennio fa, come in mille altre campagne italiane, bambini costretti a girovagare d'inverno con le braghe corte e d'estate con le maglie di lana, perché, saggezza popolate docet, dove non passa il freddo non passa neanche il caldo. E non c'erano una volta i videogiochi, ma c'erano giornate intere passate per strada, a costruire giocattoli col legno bucato del sambuco, a creare piste per le palline antenate delle biglie. C'erano una volta visi impolverati e ginocchia sbucciate.
C'erano una volta bambini che crescevano quando quegli odiosi pantaloncini erano sostituiti dai pantaloni lunghi, quando si poteva andare a ballare e, soprattutto, quando arrivava la cartolina per il militare, per la naia. Lì i ragazzi diventavano uomini, con i capelli rasati e la fidanzata a casa che chissà se avrebbe aspettato davvero il loro ritorno.
Le cose di cui ci circondiamo vanno perdute continuamente, forse neanche ce ne accorgiamo. Non ricordiamo. Ci sono giorni in cui mi chiedo com'erano fatte le lire che pure ho frequentato per quasi 12 anni, altri in cui mi domando dov'erano le cabine telefoniche nel mio paese: una di fronte all'ufficio postale e poi? A volte mi chiedo com'era andare in banca quando non c'erano i computer e come diavolo facevo a stare ore e ore davanti allo stereo in attesa che passasse proprio la canzone che volevo registrare io. Prima di youtube, prima di spotify, bisognava per forza avere pazienza.

Erano altri tempi, semplicemente. Migliori per un verso, peggiori per altri. Penso che internet sia stata un'invenzione favolosa, che ha ampliato i nostri orizzonti in maniera esponenziale, avvicinandoci a realtà che, altrimenti, non avremmo conosciuto mai. Devo ammettere però che mi fanno un po' tristezza quei bambini appiccicati ai loro smartphone, tablet e chissà quanti altri aggeggi tecnologici. Come Guccini ho molta nostalgia per le ginocchia sbucciate dei bimbi.

Dizionario delle cose perdute, frasi [Francesco Guccini]

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Vogliamo voltarci indietro e riguardare con affettuosa rimembranza a tante piccole cose che abbiamo incontrato e che, come tante altre cose andate, più che andarsene ci sono volate via.

Vidi, secoli fa, un contadino delle mie parti portare una maglia di lana (solo quella, niente camicia) in pieno agosto, mentre, sotto il sole, stava lavorando, e grondava sudore da tutte le parti. Dissi: «Ma non ha caldo?». Rispose, non so se a ragione o per frutto di atavica, fallace convinzione: «Quello che tiene il freddo tiene anche il caldo».

Anche noi, da ragazzi, giocavamo, e non smettevamo mai: senza elettricità e con niente inventavamo strumenti ludici, e ogni tanto mi prende un desiderio strano, la voglia di radunare qualche coetaneo e, in segreto, di nascosto, da qualche parte, rifare almeno uno dei vecchi giochi che, senza bisogno di attaccare una spina, resero felice la nostra infanzia.

Il postino funzionava in paese, ma se la lettera da spedire era per un abitante di una frazione distante, si aspettava che passasse una persona di quel posto isolato e gliela si affidava: “Tè, Gino, c’è una lettera per la Iolanda di Carletto, tu che abiti lì vicino mi fai il piacere di dargliela?”. “Lì vicino” magari era un chilometro buono. Il concetto di urgenza era molto diverso; e anche quello di privacy.

Nell'immediato dopoguerra c’era una voglia di ballare che faceva luce.
Dopo la grande tragedia la gente voleva dimenticare, aveva bisogno di feste, di vita, e il ballo forniva la medicina giusta. Le sale nascevano alla stessa rapidità con cui si tiravano su le case, i ponti, le strade e i binari della ricostruzione.

Quanti amori saranno nati su quelle piste dai nomi fantasiosi, e quanti svaniti nel volgere di una danza, quante frasi di grande nonscialanza pronunciate fra un ballo e l’altro (“Viene qui spesso, signorina?”, “Ma lei, scusi, studia o lavora?”, “Fuori c’ho la macchina, se vuole l’accompagno a casa!”, “Non stringa tanto, per favore!”), quante coppie si sono formate, hanno fatto figli, hanno vissuto la loro vita e ogni tanto, in pacifica vecchiaia, si ricorderanno forse di quel “balla, signorina?” che ha dato inizio alla loro storia.

Una conseguenza della scomparsa dei pantaloni cortissimi forse c’è stata: esistono ancora le ginocchia ricolme di gloriose croste?

Cominciava a delinearsi quel famoso motto della naia che recita: “La vita militare è rendere le cose facili difficili attraverso l’inutile”.

In ogni casa ci sono circa dieci biro, di cui solo due funzionanti, e male. A volte si volatilizzano, è fenomeno fisico accertato che una biro, lasciata incustodita anche solo per alcuni secondi, sparisca e non si trovi più.

In questo mese // Marzo 2015

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Passeggiare in solitudine come mai prima d'ora, con la musica nelle orecchie in rigoroso ordine casuale. Andare per negozi, ritornare in libreria, litigare un libro con la mamma. Raccogliere margherite e fiori di San Giuseppe. Consumare un tubetto di bolle di sapone al giorno. Ricevere la mia tazza Nutella. Seminare. Creare. Rilassarsi. Belle notizie di nuovi bambini in arrivo. Un matrimonio piuttosto a sorpresa. Ritrovare una sua vecchia foto in una cartella del computer, sorridere senza un motivo per quella sua strana maschera di Carnevale, sotto cui l'ho immediatamente riconosciuto lo stesso. Appiccicare quella foto al diario, dopo aver riempito tutte le pagine di sole parole, quest'anno. Incollargli accanto un'altra foto, che mi ricordi sempre di cogliere l'attimo e di non crogiolarmi nell'alibi di un futuro che sarà migliore, perché non si può mai sapere se quel futuro l'avremo mai.
Se marzo fosse finito tre giorni prima avrebbe sfiorato la perfezione.
Libri
- Stoner di John Williams, lettura tanto attesa quanto gradita.
- La macchina della felicità di Flavio Insinna. Una storia d'amore, col senno del poi posso dire che si incastra purtroppo benissimo col periodo in cui l'ho letta.
- Dizionario delle cose perdute di Francesco Guccini.
- Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, romanzo che non mi aspettavo minimamente potesse piacermi così tanto. A breve, gli scarabocchi sul blog.
Film
- Still Alice.
- Mona lisa smile, vecchio film che non avevo mai visto e che ho trovato per caso una sera su Mtv. Come sia finita su Mtv non si sa, ma il film mi è piaciuto.
- The imitation game.
- Cinquanta sfumature di grigio, visto per non sentirmi esclusa e per poter dire la mia opinione, che è la seguente: non mi aspettavo chissà quale trama, ma un po' di sesso sì, invece non ho trovato né l'una né l'altro.
- Le pagine della nostra vita, uno dei miei film d'amore preferiti. Quella scena di loro due sotto la pioggia è meglio di tutte le sfumature sopra citate.
- Nessuno mi può giudicare, rivisto per l'ennesima volta.
- Il giovane favoloso, che unisce il mio attore italiano preferito col mio poeta italiano preferito. Credo che tirare le somme sia semplice.
- Fratelli unici, con Luca Argentero e Raoul Bova e pertanto da vedere.
- American sniper, l'onore, la gloria, l'incapacità di tornare alla vita normale e la sfiga del miglior cecchino americano di sempre.
- Birdman, non l'ho capito, mi ha messo ansia, mi ha annoiata. Mi ha fatto solo venire più voglia di leggere Carver.
Fiction e serie tv
- Il bosco, finale deludente, per me.
- Sfida al cielo / La narcotici 2.
- La dama velata, genere di fiction che evito sempre con cura, stavolta ci sono cascata. La presenza di Lino Guanciale ha favorito la mia resa, vorrei solo sapere perché ogni personaggio che interpreta si chiama Guido.
3 Canzoni 
1) Difendimi per sempre, la più ascoltata del mese. Certe volte mi lancerei anche in improbabili acuti mentre cammino con passo felpato (ma dove???) lungo la statale. Non lo faccio però, giuro.
Parlami, ti ricordavi di me?
Pensaci...ci siamo visti nei miei sogni.
2) Le passanti, versione di Tiziano Ferro. Mi è capitato di ascoltarla su Spotify e ho avuto una specie di epifania: questa canzone è la colonna sonora dei miei film mentali, che in maniera più poetica Fabrizio De Andrè ha definito felicità intraviste.
Ma se la vita smette di aiutarti
è più difficile dimenticarti
di quelle felicità intraviste
dei baci che non si è osato dare
delle occasioni lasciate ad aspettare
degli occhi mai più rivisti.

Allora nei momenti di solitudine
quando il rimpianto diventa abitudine,
una maniera di viversi insieme,
si piangono le labbra assenti
di tutte le belle passanti
che non siamo riusciti a trattenere.
3) Mai e per sempre, Marco Mengoni.
Se vivi la vita
in punta di piedi,
d'accordo non corri,
però quasi voli.
Acquisti e regali 
- Due camicie: una a quadretti e una di jeans. Un maglione di lana scontatissimo dai colori un po' improbabili, ma che per casa va benissimo. Un maglioncino rosso, uno giallo. Due magliette/camicette con fantasie primaverili. 
- Suite francese di Irène Némirovsky che, causa lavori pasquali, finora ho letto molto lentamente.
- Jane Eyre di Charlotte Bronte.
Sperimentazioni in cucina
- Torta sette veli. 
- Mimosa monoporzione.
Cose creative
- Una mini cucina di carta pesta, costruita con scatole delle scarpe, vinavil, carta igienica, tappi di sapone e vecchi cd.
- Coprispalla a maglia, una faticaccia, ma ne è valsa la pena.
- Un cestino di Pasqua all'uncinetto e due pulcini amigurumi.
- Le quattro stagioni all'uncinetto, improvvisate e per questo non perfette, ma comunque sono abbastanza soddisfatta.
- Tre biglietti pop up. 
Fotografie


Lessico famigliare, Natalia Ginzburg

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Lessico famigliare era per me solo un libricino dalle pagine ingiallite che vedevo sul ripiano della libreria di mia sorella, libricino ingiallito che poi si è trasferito nella mia camera quando lei si è sposata. Dunque per anni l'ho preso in mano e spolverato, anche da bambina devo averlo frequentato, perché le pagine, soprattutto quelle bianche iniziali, sono piene di disegni a matita.
#tesorodellazia non ti venisse mai in mente di fare la stessa cosa con i miei libri!

Non credo di aver mai avuto la tentazione di leggere Lessico famigliare, non per un particolare motivo specifico, semplicemente non mi attraeva.
Ho deciso di dargli una possibilità quando ho realizzato che il ripiano che dedico ai libri ancora da leggere si era riempito e che, quindi, andava svuotato. Svuotato, non esageriamo. Ho soltanto creato uno spazietto di tre centimetri prontamente rioccupato da Jane Eyre. Sono punto e a capo, perciò, con sempre 48 libri non letti nelle mie mani.
A parte questo, comunque, sono stata una stupida: Lessico famigliare mi è piaciuto tantissimo! Avrei dovuto leggerlo molto prima.
Natalia Ginzburg, che fino al matrimonio fu Natalia Levi, scrive un avvertimento prima della vera e propria storia. Annuncia che ciò di cui il lettore leggerà nel suo Lessico famigliare non è altro che la realtà: dentro quella sua opera, avverte, c'è tutta la sua famiglia e ci sono tutti gli amici che quella famiglia aveva. Scrive anche l'autrice che bisognerebbe leggere il libro come un romanzo vero e proprio, benché sia tratto dalla realtà e della realtà mantenga addirittura i nomi veri.

Lessico famigliare, dunque, narra la storia vera della famiglia Levi. Detta così potrebbe sembrare una trama noiosa e banale, all'inizio io per prima avevo quasi l'impressione che un diario di bordo del genere potessimo scriverlo quasi tutti, in fondo. Che ci vuole? mi sono detta mentre leggevo le primissime pagine. Due pagine dopo avevo già cambiato idea.
Sotto una foto postata su Instagram in cui ho mostrato le tracce della me bambina lasciate sul libro, una mia amica ha scritto che leggere Lessico famigliare subito dopo Stoner era stata un'ottima scelta. Penso che, come al solito, avesse ragione, perché entrambi i libri hanno in comune una normalità di fondo, una situazione che forse potremmo vivere tutti. Mentre però Stoner mantiene questa linea piatta dall'inizio alla fine, Lessico famigliare a un certo punto va incontro a una svolta: la famiglia di Natalia si rifiuta, al contrario di Stoner, di vivere una vita in balìa delle onde della storia e capisce che nella storia può provare a intervenire. Gli anni raccontati dalla Ginzburg sono prima quelli di un fascismo che si tende a pensare possa passare via in fretta senza lasciare troppi segni, diventano poi gli anni delle leggi razziali, di un fascismo che inizia concretamente a far più paura, fino a sfociare negli anni veri e propri della guerra e delle persecuzioni.
Mentre la vita di Stoner resta quasi indifferente di fronte alla guerra mondiale, la famiglia Levi prende posizione: è antifascista.
Mario, uno dei fratelli di Natalia, riesce a fuggire all'estero mentre cerca di portare in Svizzera manifesti sovversivi.
Beppino, il padre di origini ebraiche, si trasferisce in Belgio, dopo aver conosciuto anche il carcere insieme ai suoi due figli Alberto e Gino.
Alberto insieme alla moglie Miranda sarà poi mandato anche al confino in Abruzzo, stessa destinazione in cui vengono mandati Natalia e suo marito, Leone Ginzburg. Non credo di spoilerare niente (è storia) dicendo che a lui toccherà un epilogo ben peggiore.
Lessico famigliareè il ritratto leggero e scanzonato di una famiglia, raccontata attraverso i ricordi di una bimba che è diventata adulta, che ha conosciuto l'orrore della guerra, che per la guerra è rimasta vedova, ma che non ha dimenticato quegli anni in cui era piccola e il mondo finiva con la sua casa e nessuno poteva immaginare quello che di lì a poco sarebbe successo. È una storia che il dramma lo suggerisce, ma che non lo urla mai, tutto resta impigliato in una rete di dialetti e modi di dire che diventano storia famigliare, ricordi di genitori ancora giovani e sempre insoddisfatti, di sarte, di balie che passavano il loro tempo a casa Levi dispensando la loro arte e il loro lessico.
La famiglia di Natalia doveva essere una famiglia di spicco, perché molti di quelli che per loro erano amici o parenti sono oggi, per noi, pezzi di storia: Olivetti è stato marito di Paola, unica sorella dell'autrice, e poi compaiono numerosi antifascisti come Salvatorelli, Turati, Foa, lo stesso Ginzburg, fino ad arrivare a Pavese.
Natalia conosceva molto bene Pavese e anche di lui offre un'immagine nuova, che si discosta un po' dallo scrittore che conosco, che ho sempre pensato come un uomo taciturno e malinconico, visto poi anche la fine che ha scelto di fare. La Ginzburg scrive che di lui la cosa che più le manca è l'ironia, l'umorismo. Pare che Pavese fosse divertente e io, giuro, questa caratteristica non l'avrei mai dedotta dai suoi libri.

È stata una lettura sorprendente, semplice e importante al tempo stesso. Si respira l'amore imperfetto delle famiglie, col sottofondo delle frasi più caratteristiche di ogni persona, si respira la storia, anche se non è questo il libro su cui poter piangere per le scene strappalacrime descritte: non ce ne sono, sebbene la biografia dell'autrice suggerisca che sia stata una sua scelta stilistica quella di evitarle.

Sempre di domenica #44

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Che programmi avete per questa domenica? Io, appena avrò pubblicato questo post, me ne andrò fuori, a strapazzare di coccole il nuovo micio arrivato a casa, a leggere Suite francese visto che sto andando avanti a passo di lumaca, a giocare con la bimba di mia cugina e poi, probabilmente, a fare una passeggiatina, con questa bella giornata di sole non si può proprio rimanere in casa. 

Buona domenica e buona lettura!

2- Le storie che non conosci, canzone di Samuele Bersani e Pacifico, con la partecipazione speciale di Guccini, dedicata ai libri. Grazie a Marta che me l'ha fatta scoprire. 
Una storia che non conosci non è mai di seconda mano.
3- Come trovare il tempo per leggere, articolo di Oliver Burkeman.
Pensare al tempo come a una risorsa da massimizzare significa concepirla in modo strumentale, cioè giudicare che un momento è speso bene solo se ci fa avanzare verso un dato obiettivo. Invece immergersi nella lettura dipende proprio dalla disponibilità a rischiare l’inefficienza, la mancanza di obiettivi e persino lo spreco di tempo.
4- La paura più grande, Zerocalcare. Nella settimana della cena di classe della classe di quando eravamo bambini questo fumetto è caduto proprio a fagiolo! L'argomento della serata, uno dei tanti, è stato: Ma vi rendete conto che c'abbiamo 25 anni??? Ma vi rendete conto??? Ehm...no.

Lessico famigliare, frasi [Natalia Ginzburg]

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Non avevo molta voglia di parlare di me. Questa difatti non è la mia storia, ma piuttosto, pur con vuoti e lacune, la storia della mia famiglia. Devo aggiungere che, nel corso della mia infanzia e adolescenza, mi proponevo sempre di scrivere un libro che raccontasse delle persone che vivevano, allora, intorno a me. Questo è, in parte, quel libro: ma solo in parte, perché la memoria è labile, e perché i libri tratti dalla realtà non sono spesso che esili barlumi e schegge di quanto abbiamo visto e udito.

- Voialtri, - diceva mio padre, - vi annoiate, perché non avete vita interiore.

Mio padre spese la sua vita nella ricerca scientifica, professione che non gli fruttava denaro; e aveva del denaro un’idea quanto mai vaga e confusa, dominata da una sostanziale indifferenza.

Anche a me la poesia delle rocce nere sembrava bellissima; e mi struggevo d’invidia, per non averla scritta io. Era semplice: prati verdi, rocce nere, ne avevo visti tante volte anch’io, in montagna. E non m’era venuto in testa che si potesse farne niente: li avevo guardati, e basta. Le poesie erano dunque così: semplici, fatte di niente; fatte delle cose che si guardavano. Mi guardavo intorno con occhi attenti: cercavo cose che potessero assomigliare a quelle rocce nere, a quei prati verdi, e che questa volta non mi sarei lasciata portar via da nessuno.

Intorno ai comunisti, comunque, mio padre non aveva, a quel tempo, un’opinione ben definita. Nuovi cospiratori, nella generazione dei giovani, non pensava che ce ne fossero; e se avesse sospettato che ce ne potessero essere, gli sarebbero sembrati dei pazzi. Secondo lui non c’era, contro il fascismo, nulla, assolutamente nulla da fare.
Quanto a mia madre, lei aveva un’indole ottimista, e aspettava qualche bel colpo di scena. Aspettava che qualcuno un giorno, in qualche modo, «buttasse giù» Mussolini. Mia madre usciva, la mattina, dicendo: - Vado a vedere se il fascismo è sempre in piedi. Vado a vedere se hanno buttato giù Mussolini -.

Vivevano così, in stretta amicizia, dividendosi il poco che avevano, e senza appoggiarsi a nessun gruppo, senza fare progetti per il futuro, perché non c’era nessun futuro possibile; probabilmente sarebbe scoppiata la guerra, e l’avrebbero vinta gli stupidi; perché gli stupidi, Mario diceva, vincevano sempre.

Il fascismo non aveva l’aria di finire presto. Anzi non aveva l’aria di finire mai.
Erano stati uccisi, a Bagnole de l’Orne, i fratelli Rosselli.
Torino, da anni, era piena di ebrei tedeschi, fuggiti dalla Germania. Anche mio padre ne aveva alcuni, nel suo laboratorio, come assistenti.
Erano dei senza patria. Forse, tra poco, saremmo stati anche noi dei senza patria, costretti a girare da un paese all’altro, da una questura all’altra, senza più lavoro né radici, né famiglia, né case.

Non volle mai sposarsi, perché mai un uomo le parve coincidere con l’ideale d’uomo che lei aveva e conservava nel tempo, un uomo che non sapeva descrivere, ma i cui connotati erano, nella sua immaginazione, inconfondibili.

Sembrava che i soli ottimisti rimasti al mondo fossero Adriano e mia madre. La Paola Carrara, tutta imbronciata nel suo salottino, invitava ancora Salvatorelli, la sera, aspettando inutilmente da lui parole di speranza. Ma Salvatorelli appariva buio, tutti erano sempre più bui e più tetri, non si dicevano parole di speranza, circolava attorno un oscuro spavento.

Pavese, quella primavera, era solito arrivare da noi mangiando ciliege. Amava le prime ciliege, quelle ancora piccole e acquose, che avevano, lui diceva, «sapore di cielo». Lo vedevamo dalla finestra apparire in fondo alla strada, alto, col suo passo rapido; mangiava ciliege e scagliava i noccioli contro i muri con un tiro secco e fulmineo. La sconfitta della Francia, per me, rimase legata per sempre a quelle sue ciliege, che arrivando ci faceva assaggiare, traendole a una a una di tasca con la mano parsimoniosa e scontrosa.

La guerra, noi pensavamo che avrebbe immediatamente rovesciato e capovolto la vita di tutti. Invece per anni molta gente rimase indisturbata nella sua casa, seguitando a fare quello che aveva fatto sempre. Quando ormai ciascuno pensava che in fondo se l’era cavata con poco e non ci sarebbero stati sconvolgimenti di sorta, né case distrutte, né fughe o persecuzioni, di colpo esplosero bombe e mine dovunque e le case crollarono, e le strade furono piene di rovine, di soldati e di profughi. E non c’era più uno che potesse far finta di niente, chiuder gli occhi e tapparsi le orecchie e cacciare la testa sotto al guanciale, non c’era. In Italia fu così la guerra.

Pavese non parlava quasi mai di Leone. Non amava parlare degli assenti, e dei morti. Lo diceva. Diceva: - Quando uno se ne va via, o muore, io cerco di non pensarci, perché non mi piace soffrire.
Tuttavia forse, a volte, soffriva per averlo perduto. Era stato il suo migliore amico. Forse annoverava quella perdita fra le cose che lo straziavano.

Era, il dopoguerra, un tempo in cui tutti pensavano d’essere dei poeti, e tutti pensavano d’essere dei politici; tutti s’immaginavano che si potesse e si dovesse anzi far poesia di tutto, dopo tanti anni in cui era sembrato che il mondo fosse ammutolito e pietrificato e la realtà era stata guardata come di là da un vetro, in una vitrea, cristallina e muta immobilità. Romanzieri e poeti avevano, negli anni del fascismo, digiunato, non essendovi intorno molte parole che fosse consentito usare; e i pochi che ancora avevano usato parole le avevano scelte con ogni cura nel magro patrimonio di briciole che ancora restava. Nel tempo del fascismo, i poeti s’erano trovati ad esprimere solo il mondo arido, chiuso e sibillino dei sogni. Ora c’erano di nuovo molte parole in circolazione, e la realtà di nuovo appariva a portata di mano; perciò quegli antichi digiunatori si diedero a vendemmiarvi con delizia.

Balbo, quando smetteva un momento di discutere con quei suoi amici, esponeva a Pavese e a me le sue idee sul nostro modo di scrivere. Pavese lo ascoltava seduto in poltrona, sotto il lume, fumando la pipa, con un sorriso maligno: e di tutte le cose che Balbo gli diceva, lui diceva che già le sapeva da lunghissimo tempo.
Ascoltava, tuttavia, con vivo piacere. Aveva sempre, nei rapporti con noi suoi amici, un fondo ironico, e usava, noi suoi amici, commentarci e conoscerci con ironia; e questa ironia, che era forse tra le cose più belle che aveva, non sapeva mai portarla nelle cose che più gli stavano a cuore, non nei suoi rapporti con le donne di cui s’innamorava, e non nei suoi libri: la portava soltanto nell’amicizia, perché l’amicizia era, in lui, un sentimento naturale e in qualche modo sbadato, era cioè qualcosa a cui non dava un’eccessiva importanza. Nell’amore, e anche nello scrivere, si buttava con tale stato d’animo di febbre e di calcolo, da non saperne mai ridere, e da non esser mai per intero se stesso: e a volte, quando io ora penso a lui, la sua ironia è la cosa di lui che più ricordo e piango, perché non esiste più, non ce n’è ombra nei suoi libri, e non è dato ritrovarla altrove che nel baleno di quel suo maligno sorriso. [...] Della guerra aveva paura, ma non abbastanza per uccidersi a motivo della guerra. Continuò tuttavia ad avere paura della guerra, anche dopo che la guerra era da gran tempo finita: come, del resto, noi tutti. Perché questo ci accadde, che appena finita la guerra ricominciammo subito ad aver paura di una nuova guerra, e a pensarci sempre. E lui temeva una nuova guerra più di tutti noi. E in lui la paura era più grande che in noi: era in lui, la paura, il vortice dell’imprevisto e dell’inconoscibile, che sembrava orrendo alla lucidità del suo pensiero; acque buie, vorticose e venefiche sulle rive spoglie della sua vita.
Non aveva, in fondo, per uccidersi, alcun motivo reale. Ma compose insieme più motivi e ne calcolò la somma, con precisione fulminea, e ancora li compose insieme e ancora vide, assentendo col suo sorriso maligno, che il risultato era identico e quindi esatto. Guardò anche oltre la sua vita, nei nostri giorni futuri, guardò come si sarebbe comportata la gente, nei confronti dei suoi libri e della sua memoria. Guardò oltre la morte, come quelli che amano la vita e non sanno staccarsene, e pur pensando alla morte vanno immaginando non la morte, ma la vita. Lui tuttavia non amava la vita, e quel suo guardare oltre la sua propria morte non era amore per la vita, ma un pronto calcolo di circostanze, perché nulla, nemmeno dopo morto, potesse coglierlo di sorpresa.

Progetto un mondo, Wislawa Szymborska [La gioia di scrivere #3]

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La gioia di scrivere, raccolta di tutte le poesie della polacca Wislawa Szymborska, dorme ancora sul mio comodino. È appollaiata lì sopra da oltre un anno, ormai, ma la polvere non l'ha mai presa, perché prima di dormire capita spesso che io legga una poesia. 
Mesi e mesi fa avevo scritto che, di tanto in tanto, avrei pubblicato sul blog dei versi, ma ricontrollando oggi mi rendo conto che, in tutto questo tempo, ho ricopiato solo due poesie: Nulla due volte e In rime banali. Forse è il caso di ricominciare a fare di questo mio primo (e unico) libro di poesie una lettura condivisa.
Per questo mercoledì di sole ho scelto Progetto un mondo, che fa parte della raccolta del 1957 Appello allo Yeti
Buona lettura.
Progetto un mondo, nuova edizione,
nuova edizione, riveduta,
per gli idioti, ché ridano,
per i malinconici, ché piangano,
per i calvi, ché si pettinino,
per i sordi, ché gli parlino.
Ecco un capitolo:
La lingua di Animali e Piante,
dove per ogni specie
c’è il vocabolario adatto.
Anche un semplice buongiorno
Scambiato con un pesce,
ancora alla vita
te, il pesce, chiunque.
Quell’improvvisazione di foresta,
da tanto presentita, d’un tratto
nelle parole manifesta!
Quell’epica di gufi!
Quegli aforismi di riccio,
composti quando
siamo convinti
che stia solo dormendo!
Il Tempo (capitolo secondo)
ha il diritto di intromettersi
in tutto, bene o male che sia.
Tuttavia – lui che sgretola montagne,
sposta oceani
ed è presente al moto delle stelle,
non avrà il minimo potere
sugli amanti, perché troppo nudi,
troppo avvinti, col cuore in gola
arruffato come un passero.
La vecchiaia è solo la morale
a fronte di una vita criminosa.
Ah, dunque sono giovani tutti!
La sofferenza (capitolo terzo)
non insulta il corpo.
La morte
ti coglie nel tuo letto.
E sognerai
che non occorre affatto respirare,
che il silenzio senza respiro
è una musica passabile,
sei piccolo come una scintilla
e ti spegni al ritmo di quella.
Una morte solo così. Hai provato
più dolore tenendo in mano una rosa
e sentito maggiore sgomento
per un petalo sul pavimento.
Un mondo solo così. Solo così
vivere. E morire solo quel tanto.
E tutto il resto eccolo qui –
come Bach suonato per un istante
su un bicchiere.
Clic per le tutte le puntate su questa lettura.

Suite francese // Tempesta di giugno [Irène Némirovsky]

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Doveva arrivare al cinema, questa storia, per far sì che io, finalmente, leggessi Suite francese di Irène Némirovsky. Sono stata indecisa per qualche giorno se guardare il film prima di leggere il libro, ma alla fine ho optato per il romanzo.

Nei piani dell'autrice Suite francese si sarebbe dovuta comporre di cinque parti, ma nei fatti ne esistono solo due, visto che la Némirovsky, ebrea francese, morì nel 1942 ad Auschwitz e non riuscì mai ad arrivare in fondo ai suoi piani di scrittura. A essere pubblicate, solo una decina di anni fa grazie a un fortuito ritrovamento da parte delle figlie dell'autrice, sono state soltanto Tempesta di giugno e Dolce: la prima narra dell'esodo dei parigini prima dell'arrivo dei tedeschi in città, nei giorni dell'armistizio; la seconda invece dell'occupazione nazista, che costrinse francesi e tedeschi a convivere, talvolta anche in un clima tutt'altro che di odio.

In questo post parlerò della prima parte, quella che, delle due, ho amato di meno (ma che ho comunque amato).
Il caos di quel 1940 in Francia viene raccontato dalla Némirovsky attraverso quattro quadri principali che, ogni tanto, trovano un punto in comune e si ricollegano:
1- la famiglia Péricand;
2- Gabriel Corte e Florence;
3- la famiglia Michaud;
4- Charlie Langelet. 
La famiglia Péricand appartiene all'alta borghesia, è una famiglia molto ricca e influente. Quando i tedeschi sono ormai alle porte, il padre deve restare a Parigi per lavoro, mentre la madre si mette in fuga insieme ai suoi quattro figli minori, con un pensiero sempre fisso per il maggiore, Philippe, sacerdote impegnato con un gruppo di terribili ragazzini. A dare più problemi alla povera Charlotte, che sta tentando di raggiungere Nimes dove ha dei parenti che possono aiutarla, è Hubert: troppo piccolo per essere chiamato alle armi, ma troppo grande per restare a guardare. Hubert una notte scappa via e raggiunge l'esercito francese, impegnato nel difendere un ponte dall'attacco tedesco, lui ha solo 17 anni, non ha armi, non ha una divisa, è romanticamente patriottico, ma in realtà è più l'impiccio che l'aiuto ciò che offre ai militari suoi compaesani. Capito l'errore, deluso per via dell'armistizio, torna sui suoi passi alla ricerca della famiglia che ha lasciato. Ci ritornerà ormai uomo, dopo aver visto l'orrore della guerra e dopo aver conosciuto anche una notte d'amore con Arlette Corail.
Arlette è una ballerina che lascia Parigi grazie al suo amante Corbin, direttore della banca in cui sono impiegati i coniugi Michaud, persone semplici, con un grande amore e un figlio, Jean Marie, soldato francese di cui non hanno più notizie. Temono che sia morto, ma in realtà, dopo essere stato gravemente ferito, ha avuto la fortuna di ricevere le amorevoli cure di una famiglia di campagna, dove ha incontrato anche Madeleine, che, prima di lui, voleva farsi suora. Forse i due si amano, ma non se lo dicono, può darsi che sia stata solo la guerra a farli avvicinare, ma ormai è stato firmato l'armistizio e forse tutto può ricominciare, normalmente, perciò lui riparte e lei sposa Bonait, un prigioniero di guerra che è riuscito a fuggire.
Senza famiglia è invece Gabriel Corte, scrittore pieno di sé, che cerca con tutte le forze di proteggere i suoi manoscritti, quasi più della sua vita. Nella fuga porta con sé l'amante Florence.
Charlie Langelet infine non ha neanche un'amante, è uno scapolone d'oro con una profonda passione per le porcellane. Una volta terminato l'esodo, una volta evitata con un'immensa fortuna la morte, quando ormai pensa di essere al sicuro, incontra una donna che lo stuzzica e con cui decide di uscire: lei è, ancora, Arlette, la donna onnipresente che è tanto brava con gli uomini quanto non lo è con le automobili.
Questa prima parte dell'opera, questa tempesta del giugno del 1940, è andata a rilento, ai miei occhi. Non so spiegare perché io abbia impiegato tutto questo tempo per leggere duecento pagine, considerando che la prosa della Némirovsky mi piace e mi piacciono anche, in generale, i romanzi storici.
Suite francese, nel suo complesso, mi ha conquistata, nonostante questa prima parte mi abbia ispirato lentezza, come se tutte le vite che racchiude, come se tutte le persone che brulicano per le vie di una Parigi che all'improvviso si svuota, come se i protagonisti e tutti quelli che stanno loro intorno, ma che non conosciamo, costituissero un lento fiume che noi abbiamo la fortuna di poter guardare scorrere dall'alto. Non ci possiamo mettere i piedi dentro, non ne abbiamo neanche voglia, ma lui è lì, che scorre lento lento, verso il mare, verso la libertà, verso la salvezza.

Avevo già assaporato la guerra nella letteratura di Irène Némirovsky con Notte in treno, un breve racconto sulla prima notte del conflitto in cui si mostra come, con l'inizio delle avversità, sembrano essere scomparse tutte le differenze tra le persone. Sembra quasi, in quella notte sospesa, che il più povero sia come il più ricco, distanti anni luce eppure uniti dal fine comune di salvarsi la vita. Il tema in Tempesta di giugno viene ampiamente approfondito: durante la fuga da Parigi le strade si riempono di uomini che sembrano talvolta, non sempre, essere solidali gli uni con gli altri, anche con chi il giorno prima non avrebbero degnato di uno sguardo. Ma quanto è vero e profondo questo altruismo? Poco. Quando il treno del racconto arriva alla stazione, quella notte sospesa finisce e tutti sono di nuovo indifferenti gli uni agli altri; nello stesso modo, passato il terrore iniziale di quell'esodo massiccio, i parigini tornano a essere quello che sono sempre stati, o forse anche peggiori di quello che sarebbero in condizioni normali. Mors tua vita mea, in certi contesti sembra essere questa l'unica legge esistente. Alla fine dei giochi anche la guerra è meno dura per chi ha i contatti giusti, per chi sa vendersi, per chi ha l'automobile, per chi ha i soldi per spostarsi e per comprare.

Sono curiosa di vedere il film, perché trasporre questo pipinaio di vite al cinema immagino sia stata un'ardua impresa, soprattutto per quel che riguarda questa prima parte.

Suite francese // Tempesta di giugno, frasi [Irène Némirovsky]

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Odiava la guerra, costituiva ben più che una minaccia alla sua vita, alla sua tranquillità; a ogni istante distruggeva il suo universo immaginario, l’unico in cui si sentisse felice, come il suono di una tromba stonata e micidiale che faceva crollare le fragili pareti di cristallo innalzate con tanta fatica tra lui e il mondo esterno.

Possiamo prevedere che noi tutti soffriremo nei nostri cuori perché le sciagure pubbliche sono fatte di una moltitudine di dolori privati.

Ognuno con una stretta al cuore guardava la propria casa e pensava: "Domani sarà distrutta, domani non avrò più niente. Non ho fatto male a nessuno. Perché?", e intanto un'onda di indifferenza si impadroniva delle loro anime: "Ma cosa importa! Sono solo mattoni, legno, oggetti inerti! L'essenziale è salvare la vita!". Chi si soffermava sulle disgrazie della Patria? Non loro, non quelli che quella sera partivano. Il panico cancellava tutto ciò che non era istinto, fremente moto animale della carne. Afferrare ciò che si aveva di più prezioso al mondo, e poi!... E, in quella notte, solo ciò che viveva, respirava, piangeva, amava aveva valore! Poche erano le persone che pensavano alle proprie ricchezze; si abbracciava stretta tra le braccia una donna o un figlio, e il resto non contava nulla; il resto poteva sprofondare tra le fiamme.

I Michaud si erano alzati alle cinque del mattino per avere il tempo di sistemare a fondo l'appartamento prima di lasciarlo. Effettivamente era strano prendersi tanta pena per cose senza valore e condannate, con ogni probabilità, a sparire non appena le prime bombe fossero state sganciate su Parigi. Ma, pensava la signora Michaud, anche i morti destinati a marcire sotto terra vengono vestiti e acconciati.

Di quando in quando rimbombava un'esplosione lontana: "Non è per noi", pensavano tutti con un sospiro di sollievo. "Non è per noi, è per gli altri. Siamo fortunati!".

Carità cristiana, dolcezza, nobili sentimenti si sgretolavano d'un colpo come inutili orpelli, rivelando la sua anima arida e vuota. Erano soli in un mondo ostile, lei e i suoi figli. Doveva nutrire e mettere al riparo i suoi cuccioli. Il resto non aveva importanza.

"Un girotondo dentro una trappola", pensava.

 «Voglio partire, voglio partire», mormorò.
Si slanciò verso la madre, le afferrò la mano, la trasse vicino a sé.
«Mamma, mi dia delle provviste, il mio maglione rosso che è nel suo nécessaire e... un bacio. Parto» .

"Che non ci bombardino più! Che bombardino gli altri, mio Dio, ma non noi! Ho tre bambini! Li devo salvare! Fa' che non ci bombardino più!".

Era strano... lui e i suoi compagni avevano lavorato, superato esami, preso diplomi, pur sapendo benissimo che era inutile, non sarebbe servito a nulla perché ci sarebbe stata la guerra... Il loro futuro era già tracciato a priori, la loro carriera era già scritta nei cieli, come si diceva una volta: «I matrimoni sono stabiliti dal cielo».

In loro c'era sempre stata un'ardente volontà di gioia; proprio perché si erano molto amati avevano imparato a vivere alla giornata, dimenticando di proposito il futuro.

Jeanne gli posò dolcemente, con tenerezza, la mano sulla fronte, mentre disperata pensava: "Se Jean Marie fosse qui, ci proteggerebbe, ci sarebbe di aiuto. Lui è giovane, è forte...". E in lei stranamente si intrecciavano l'impulso a proteggere della madre e il desiderio femminile di essere protetta. "Dov'è il mio povero bambino? Sarà vivo? Starà soffrendo? No, Dio mio, non è possibile che sia morto".

«Sei strano, Maurice. Eppure li hai conosciuti questi personaggi di un cinismo assoluto, totalmente indifferenti, e malgrado ciò non sei infelice, intendo dire infelice nell'animo. Mi sbaglio forse?»
«No».
«E allora da dove trai conforto?»
«Dalla consapevolezza della mia libertà interiore», rispose dopo un momento di silenzio. «Questo inalterabile bene prezioso, che solo da me dipende se perderlo o conservarlo. Dal sapere che le passioni spinte al parossismo come attualmente accade finiscono per esaurirsi. Che ciò che ha avuto un inizio è fatalmente destinato a finire. In sostanza, che le catastrofi cessano e che bisogna cercare di non cessare prima di loro, ecco tutto. Quindi, come prima cosa vivere. Primum vivere. Giorno per giorno. Resistere, aspettare, sperare».

Suite francese // Dolce [Irène Némirovsky]

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Se avevo trovato la prima parte (Tempesta di giugno) bella ma lenta, questa seconda e purtroppo ultima parte di Suite francese (Dolce) mi è sembrata semplicemente meravigliosa. 
Per tutto il tempo che ho impiegato a leggerla ho avuto in testa il Piero di De Andrè, in particolare la sua incapacità di sparare al nemico, incapacità dettata dal fatto che Piero, prima che un nemico-bersaglio, davanti a sé vedeva un uomo, un uomo che non era poi tanto più colpevole di lui in quella guerra.
Non è una divisa di un altro colore a fare con certezza un nemico.
L'odio non si impone per forza dall'alto, per una ragione di Stato.
Il popolo vinto in fondo può essere che si somigli, nello stato d'animo, col popolo vincitore.

Se Tempesta di giugno raccontava della Francia nei giorni dell'invasione e dell'armistizio, Dolce presenta invece il Paese già occupato dai nazisti, mettendo in risalto come spesso quella convivenza forzata tra francesi e tedeschi non fosse poi così piena d'odio e di rancore: a volte poteva essere addirittura una convivenza dolce, appunto.
Ne sa qualcosa Lucile, moglie di Gaston, prigioniero di guerra figlio della vedova Angellier, con cui vive la nuora, in una villa bellissima a Bussy, alla periferia di Parigi. Il matrimonio di Lucile e Gaston non era stato certo celebrato per amore: lei l'aveva sposato per volere del padre e lui per la ricca dote che poteva offrirgli. Non si erano mai amati e, nonostante lei fosse giovane e molto bella, lui le aveva, fin dall'inizio, preferito le attenzioni di una sartina parigina.
Lucile conduce una vita noiosa in quella casa ricca e vuota, costretta a vivere con una suocera che le rende l'esistenza un incubo. La situazione finalmente cambia quando, con la Francia occupata, in quella villa arriva un ufficiale tedesco, Bruno. È bello, Bruno, ha solo ventiquattro anni e una moglie lontana che ha sposato prima della guerra e che non ha più visto. È un tedesco, un nemico, come tale dovrebbe essere trattato, con sufficienza e indifferenza. Alla signora Angellier riesce bene evitarlo, ma la nuora non è poi tanto convinta che quelle mani siano sporche di sangue francese. Oh sì, certo, sa che è così, ma sono pur sempre mani giovani di un uomo educato, affascinante, un uomo che sognava di fare il musicista, ma che ha dovuto, suo malgrado, fare il soldato.
Bruno, agli occhi di Lucile, non è più colpevole di Gaston in quella guerra. Quella guerra e quel sangue non sono stati loro a volerlo. E allora: che male c'è nel fermarsi a parlare con quel ragazzo dai capelli biondi? Che male c'è se passeggiano insieme? Che male c'è se lui le suona il pianoforte e lei gli legge i libri? E poi Gaston non l'ha mai amata, questo Bruno invece... Sì, è un tedesco, un nemico, ma prima di tutto è un uomo.
Dolce è soprattutto la storia di un amore, vissuto segretamente, mentre da qualche parte si combatteva, ma non lì, non a Bussy, non in quel momento in quella Francia appena occupata. Furono mesi tranquilli quelli subito successivi all'armistizio, mesi in cui l'arrivo dei tedeschi fu quasi un piacere, un pretesto per andare oltre la monotonia di quella vita in guerra piena di stenti. Le donne, in particolare, furono ben liete di vedere finalmente degli uomini in carne e ossa per le strade, dopo che i loro uomini erano stati mandati tutti a combattere.

Suite franceseè un romanzo che mi è sembrato davvero molto bello, nonostante lo sarebbe potuto essere molto di più se Irène Némirovsky avesse avuto la possibilità di scriverlo come aveva in mente di fare. E invece è morta ad Auschwitz e ha lasciato un'opera incompiuta che, non volendo, termina con una parte molto delicata e pacifica. Termina con una nuova guerra appena dichiarata, con questi soldati tedeschi che vengono mandati in Russia, senza sapere che cosa ne sarebbe stato di loro. Chissà che fine avrebbe fatto Benoit nei piani dell'autrice. E chissà se Bruno sarebbe sopravvissuto alla campagna di Russia e un giorno, dopo la guerra, sarebbe tornato da Lucile. Chissà se a quel punto avrebbero avuto la voglia e il coraggio per viversi con sincerità.

Chissà.
Mi mettono molta tristezza questi chissà che siamo costretti a usare a proposito di Suite francese.

Suite francese // Dolce, frasi [Irène Némirovsky]

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«Guarda! Stai leggendo?». Aveva una voce dolce e raffilata, lieve come un accordo di arpa. «Non hai quindi nulla da fare?».

Una ridda di pensieri si affollò in un secondo nella mente di Lucile: "Potrebbe essere stato lui a fare prigioniero Gaston. Chissà quanti francesi ha ucciso! Quante lacrime sono state versate per colpa sua. È anche vero che se la guerra fosse andata diversamente, oggi Gaston potrebbe entrare lui da padrone in una casa tedesca. È la guerra, non è colpa di questo ragazzo".

Medeleine non rispose. In fondo, non ne sapeva molto di quello che passava per la testa a Benoit, rifletté, anche se erano cresciuti insieme. Benoit era taciturno e rivestito come da una triplice armatura di pudore, maschile, contadina e francese. Lei non conosceva cosa il marito odiasse o cosa amasse, ma soltanto che era capace di odio e di amore.

Ci sono donne che aspettano lo stesso uomo e altre che aspettano un uomo diverso da quello che è partito.

"Divieto" non significava tuttavia "impossibilità di aggirare l'ostacolo", ma semplicemente "difficoltà a farlo".

«Signora, io sono un soldato. E i soldati non pensano. Mi si ordina di andare e io vado. Di combattere, e io combatto. Di farmi uccidere, e muoio. L'esercizio del pensiero renderebbe il combattimento più difficile, e più terribile la morte».

«Tedesco o francese, amico o nemico, come prima cosa è un uomo, e io sono una donna. Con me è dolce, tenero, pieno di piccole attenzioni... È un ragazzo di città; curato come non sono i ragazzi di qui; ha una bella pelle, denti bianchi. Quando bacia ha un alito fresco, non puzza di vino come i giovanotti della zona. Questo mi basta. Non voglio altro. Ci complicano già sufficientemente l'esistenza con le guerre e tutto il resto. Tra un uomo e una donna queste cose non contano. Se fosse inglese o negro e mi piacesse, me lo prenderei, se potessi. Le faccio schifo? Certo, lei... lei è ricca, può godere di piaceri che a me non sono concessi...».

"La guerra... sì, sappiamo bene cos'è. Ma l'occupazione, in un certo senso, è ancora peggio, perché ci si abitua alle persone. Si pensa: 'Dopotutto sono persone come noi', e invece no, non è vero. Siamo due razze diverse, irreconciliabili, nemiche per sempre", così pensavano i francesi.

Gli uomini non valgono un granché, e la sconfitta risveglia in loro il lato peggiore.

Più di un soldato mormorò nell'oscurità a una mesta fanciulla: «Dopo la guerra, ritornerò». Dopo la guerra...com'era lontano!

Per quanto rapidamente e felicemente si concludesse la guerra con la Germania, quanti poveri ragazzi non avrebbero mai visto quella fine benedetta, quel giorno di resurrezione?  

I partigiani [Nino Pedretti]

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Ricordo ancora le parole che lessi esattamente un anno fa nel blog di Paolo Nori. Le voglio riproporre oggi, perché se le ho ancora nella mente vuol dire che mi hanno colpito e magari , chissà, colpiranno anche voi.
Non è per via della gloria, che siamo andati in montagna, a far la guerra. Di guerra eravam stanchi, di patria anche. Avevamo bisogno di dire: lasciateci le mani libere, i piedi, gli occhi, le orecchie; lasciateci dormire nel fienile, con una ragazza. Per questo abbiam sparato, ci siamo fatti impiccare, siamo andati al macello col cuore che piangeva, con le labbra tremanti. Ma anche così sapevamo che di fronte a un boia di fascista noi eravam persone, e loro marionette.
[Nino Pedretti, Al vòusi e atre poesie in dialetto romagnolo, Torino, Einaudi 2007, p. 17, la poesia si intitola I partigièn]
Buon 25 aprile a chi prova a rendersi il più possibile degno del sacrificio che tanti, tantissimi, giovani non fascisti hanno fatto per dare a noi quella libertà di cui loro non hanno potuto godere.

Buon 25 aprile a chi è partigiano ancora oggi, nel suo quotidiano, e nonostante tutto continua a vivere con onestà e rispetto.

Buon 25 aprile a chi non pensa che partigiani e fascisti siano stati ugualmente assassini. Non lo erano: perché solo chi ha combattuto per la libertà era dalla parte giusta.

Buon 25 aprile a tutti gli italiani non necessariamente comunisti, ma semplicemente antifascisti.

p.s. Ho creato una pagina con tutti i post del blog dedicati alla Resistenza, questa.
p.s. 2 Vi invito a leggere questo post di Zac sulle donne liberatrici, post che a me è sembrato meraviglioso.

Non chiedere perché, Franco Di Mare

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Sono passati molti anni dall'ultima volta che ho letto un libro ambientato a Sarajevo, durante l'assedio del 1992. Quel libro, finito tra le mie mani molte estati fa ormai, era Venuto al mondo di Margaret Mazzantini e raccontava, come credo sia abbastanza noto, la storia di una maternità complessa, oltre la legalità, figlia di un amore grande, condito anche con un po' di egoismo occidentale. 
Non chiedere perchéè invece la storia di un uomo che non ha mai voluto figli, ma che nel giro di tre settimane trascorse a Sarajevo diventa padre.
Le due storie presentano delle similitudini, ma a dividerle è una sostanziale differenza: la Mazzantini ha scritto un bellissimo romanzo, Franco Di Mare invece ci ha regalato l'altrettanto bellissima, e dolcissima, storia vera della sua famiglia. Ha cambiato solo alcuni passaggi e tutti i nomi dei protagonisti, mantenendo invece i nomi veri delle vittime, come omaggio a loro; per il resto ci ha reso partecipi di come, più di vent'anni fa, abbia deciso che proprio Stella diventasse sua figlia.
Marco De Luca è un professionista affermato ormai, ha superato da un po' la trentina, vive in una casa disordinata ed è alle prese con la separazione dalla moglie. È un uomo solo e piuttosto confuso, in quell'estate del 1992, perciò quando gli viene proposto di partire come inviato di guerra alla volta della Sarajevo assediata, sotto il tiro dei cecchini e delle loro granate, lui non ha neanche bisogno di pensarci: accetta, tanto non ha nulla da perdere. Il lavoro, in fondo, è in quel momento l'unica cosa che ha: al di là di quello, il nulla.
A cinquanta minuti di volo dall'Italia, dalle spiagge assolate e piene di ombrelloni di quell'estate lì, dall'indifferenza della civiltà, Marco trova la fine del mondo, uomini non più uomini che prendono la mira e sparano, contro chiunque: anche contro i bambini.
Sarajevo era una città bella, dove tutti sapevano vivere insieme, nonostante le differenze. Per secoli cattolici, musulmani ed ebrei avevano convissuto pacificamente, poi, di colpo, la guerra, una guerra che Marco cerca di raccontare per quello che vede, senza facili pietismi, provando a svegliare le coscienze dei suoi connazionali in vacanza. Dov'è l'Europa civile? si chiedono gli abitanti di Sarajevo che vivono col mirino puntato addosso, affidando ogni giorno la propria vita a un tiro di monetina. Testa o croce, vita o morte: in quel 1992, al di là dell'Adriatico, la loro probabilità era quotidianamente la stessa.
Nel mezzo di quella pulizia etnica, mentre sta girando un servizio per la tv italiana in un orfanotrofio, Marco si innamora di una testolina bruna tra le tante bionde, si innamora di un sorriso che sembra proprio aver scelto lui, si innamora di un piccolo braccio dietro la nuca. È un attimo che non ha perché, quello in cui Marco capisce che Malina, proprio lei, sarà sua figlia e con lui tornerà in Italia, a mettere ordine in una casa incasinata e in una vita vuota.
Mesi fa ho visto la fiction di Rai1 ispirata al romanzo e alla vita di Franco Di Mare, L'angelo di Sarajevo. Mi era piaciuta molto e avevo deciso di leggere il libro, poi un paio di settimane fa l'ho trovato per caso in edicola (in realtà stavo cercando la prima uscita de La biblioteca della Resistenza del Corriere della sera, che tra l'altro non avevano), due giorni dopo l'avevo finito.
La storia, che già conoscevo, mi ha rapita. Da giornalista qual è, Franco Di Mare scrive in maniera stringata e veloce, senza dilungarsi in descrizioni d'amore o di guerra. Ci racconta dei momenti, dei passaggi, senza indagare più di tanto lo stato d'animo dei personaggi, forse perché Edin, Karen, Maria Teresa Giovannelli, Luciano, Ljubo e gli altri non sono personaggi nella mente e nella penna dell'autore, ma persone vere, in carne e ossa. E poi non era uno che sapeva parlare di sentimenti, lui. Era capace di raccontare una battaglia, ma si perdeva se gli chiedevano di guardarsi dentro.

Quella di Franco Di Mare è una storia così bella che sarebbe potuta essere anche soltanto un romanzo, il fatto che sia vera l'arricchisce sotto il profilo umano e forse la impoverisce sotto quello letterario, ma questa è solo una mia piccolissima impressione che non ha ostacolato il piacere della mia lettura.
Ho amato Non chiedere perché, perché quella di Sarajevo è una storia che non conosciamo davvero. È un controsenso, ma sono sicura che siamo più ferrati sull'attentato che, in quella città, nel 1914, provocò lo scoppio della prima guerra mondiale, piuttosto che su quello che è successo, in quella stessa città, solo vent'anni fa. Per me è senza dubbio così.

Benvenuti a Sarajevo, dunque, città che, ci fa notare l'autore, ha aperto e chiuso la storia del Novecento. 

Non chiedere perché, frasi [Franco Di Mare]

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Esattamente in quel punto, il 28 giugno del 1914, giorno di san Vito, un ragazzo di vent'anni, Gavrilo Princip, aveva dato avvio alla Prima guerra mondiale uccidendo l'erede al trono austro-ungarico, l'Arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie Sofia, Herzogin von Hohenberg. Nel cemento del marciapiedi c'era ancora impresso il calco delle orme che segnava il punto esatto in cui il militante della Giovane Bosnia aveva atteso il passaggio dell'auto con una pistola, una bomba a mano e una boccettina di veleno, per non farsi prendere vivo. "Il Novecento è iniziato e finito proprio qui, con gli accordi di pace del '95" pensò Marco. Il secolo più sanguinoso della storia dell'umanità aveva aperto e chiuso il suo cerchio nella capitale della Bosnia. Sarajevo aveva segnato in modo indelebile i destini di decine di milioni di persone.

Una volta Bianca gli aveva messo davanti un numero scritto su un foglietto: 279.
«Sai cos'è?»
«No, cos'è?»
«Sono i giorni che hai passato fuori lo scorso anno, Natale e Capodanno inclusi. Il calcolo è esatto. Li ho contati, uno per uno. Ma vedi, non sarebbe nemmeno questo. Il fatto è che, anche quando torni, non si può dire che sia veramente a casa. Tu sei assente anche quando ci sei, Marco. La tua presenza è solo fisica, la tua testa è sempre altrove. Sei assorto nei tuoi pensieri, perso tra le riviste, le cassette da visionare e il progetto del prossimo lavoro. E io sono stanca, Marco. Sono veramente stanca.»

Mentre filtrava le scorie dei suoi ultimi anni, si chiese per quale ragione alcune donne spendano buona parte della loro vita cercando di cambiare la persona che hanno accanto. E spesso ciò che maggiormente detestano è proprio quello che un tempo le attraeva di più. "Chissà perché a volte una manciata di mesi basta a trasformare in difetti anche le migliori virtù" si chiese ordinando il secondo bicchiere di Nero d'Avola.

«Guarda bene i fedeli.»
«Cos'hanno i fedeli?»
«Non noti niente?»
«No. Cosa dovrei notare? Mi sembra che tutti seguano la funzione. Cosa c'è di particolare?»
«Dai, guarda più attentamente. Hai visto adesso? Te ne sei accorto?»
«A dire il vero no. Non fare il misterioso, dimmi di cosa dovrei accorgermi.»
«Non hai visto quante persone sono rimaste ferme quando l'arcivescovo ha detto: "Nel nome del Padre, del Figlio..."?»
«È vero, hai ragione. Molti non si sono fatti il segno della Croce.»
«Proprio così. Erano quasi tutti musulmani. Dico quasi tutti perché tra quelli rimasti fermi c'era anche qualche ebreo. E se avessi guardato con ancora maggiore attenzione avresti notato anche che tra quelli che si facevano il segno della Croce c'era qualcuno che si segnava in modo diverso, toccandosi prima la spalla destra poi la sinistra. Bene: quelli invece erano cristiano-ortodossi. Cioè serbi. [...] Vedi, prima che Milosevic e Karadzic avviassero la pulizia etnica, qui le festività religiose erano condivise. I cattolici festeggiavano il Kurban, il secondo Bajram dell'anno, mangiando agnello, montone e baklava a casa dei musulmani. E insieme celebravano l'Annukka degli ebrei, e poi finivano ubriachi sotto i tavoli durante il Natale serbo, che arriva dopo quello cattolico. Nelle case dei cattolici e degli ortodossi spesso c'erano pentole, stoviglie e posate che non avevano mai cucinato o toccato carne di maile. In questo modo un musulmano o un ebreo osservanti potevano accettare un invito a cena a casa di un amico di religione diversa, senza temere di tradire i propri precetti. Questo è lo spirito che ha animato per secoli Sarajevo e i suoi abitanti, prima che ci spiegassero a colpi di granate, tutti i giorni - testoni che non siamo altro - che invece siamo diversi. Così finalmente potremo diventare come vogliono loro e - come spiegava il cardinale Puljic - finiremo per non riconoscere più il nostro fratello nemmeno se ci sbattiamo contro».

«Che strano, non ha pianto» commentò Marco ad alta voce.
La direttrice lo guardò e disse: «Vede, per i bambini il pianto è una prima forma di linguaggio. Spesso è un campanello d'allarme, altre volte la segnalazione di un bisogno, in altri casi ancora di una semplice richiesta di attenzione. Da quando è iniziata la guerra il nostro personale si è ridotto moltissimo, purtroppo. Facciamo quello che possiamo, ma i bambini restano da soli per la maggior parte della giornata. Non ci hanno messo molto a capire che è inutile piangere per richiamare l'attenzione, perché tanto non c'è nessuno che possa correre a consolarli. Le lacrime servono a poco a Sarajevo. Lo hanno imparato anche i bambini.»

Nessuno ha mai avuto una seconda occasione per fare una buona prima impressione.

«Oggi è stata una buona giornata.»
«Sono contento Karen. Però siamo solo all'inizio. È appena cominciata.»
«Un passo alla volta. Oggi è andata bene, e domani sarà lo stesso. Tu affrontala così e tutto andrà bene. Anche per andare lontano bisogna mettere un piede avanti all'altro. E sempre uno alla volta.»

Marco la prese in braccio, trafitto da decine d'occhi. Si sentì a disagio. Davanti a quei bambini che assistevano alla partenza, davanti ai loro sguardi, gli si svelava finalmente il senso vero della domanda che gli avevano fatto e che adesso, come un pensiero malato, come una rivelazione tardiva si faceva spazio anche nella sua mente: perché proprio Malina? Perché lei e non questo biondino invece, che doveva avere sì e no quattro anni ed era finalmente riuscito a prenderle la mano per dirle «Ciao Malina»? Oppure perché non quella, la bambina magrissima con gli occhi azzurri, che se ne stava da una parte sorridendo come se fosse lei quella che aveva trovato una casa dove andare? Semmai ne aveva avuta una, Marco non riusciva a trovare più una risposta e, invece di essere felice, si sentì in colpa.

Edin teneva un braccio sulle spalle della moglie. Alzò la mano e sorrise. Marco si sentiva in colpa ad andarsene e lasciarli lì, in quella situazione. Assediati, senza acqua né cibo, senza soldi, senza prospettive se non quelle di un futuro incerto. Lui invece stava per ritornare nel suo mondo, a soli cinquanta minuti di volo di distanza. Pochissimi, per potersi dire veramente lontani; un'enormità, davanti all'indifferenza con cui si guardava a quello che accadeva da quest'altra parte del mare. Il suo volo sarebbe atterrato in una città piena di turisti in sandali e cappellini, mentre un pezzo dei Balcani bruciava nell'ultima fornace che il Novecento aveva aperto nel cuore d'Europa.

Non era uno che sapeva parlare di sentimenti, lui. Era capace di raccontare una battaglia, ma si perdeva se gli chiedevano di guardarsi dentro.

In questo mese // Aprile 2015

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Un addio che avrebbe potuto essere un pesce d'aprile per la sua assurdità, poi poca pioggia a cancellare manifesti verso cui non avrei mai voluto girare la testa, anche se lo sguardo ci cade ancora da solo, ogni volta.
Ma tutto continua anche senza di te, l'hanno cantata pure ad Amici questa canzone, io sul divano avevo le lacrime agli occhi come una deficiente. Bella la vita, dicevi tu, e t'ha imbrogliato, t'ha fottuto proprio tu...
Bella la vita, sì.
Aprile di flashback e di discorsi superficiali che poi, dopo un addio, tornano in mente in tutta la loro interezza, quasi per magia. Forse sarebbe stato meglio dimenticarli e invece sono lì, con le battute sceme, le ipotesi più assurde, i gusti culinari, i difetti che se ne contavano a milioni in una mano, con le chiacchiere normali che nessuno avrebbe potuto pensare sarebbero state le ultime.
Un addio che mi impone di non dare nulla, nulla, per scontato. Perché non si sa mai. Perché può darsi non ci sarà un'altra occasione.
Giuro che ci sono stati anche attimi spensierati e felici in questi trenta giorni, anche se da quello che ho scritto finora non si evince. 
Su quest'onda di emotività/depressione ho affrontato, per esempio, la prima cena di classe delle medie da quando le medie le ho finite. Avevo rivisto più o meno tutti, ma non tutti insieme. È stata una serata bellissima, forse la più bella di tutto il mese. Me la terrò stretta al cuore per molto, molto tempo, insieme alla consapevolezza che qualcosa di positivo in quegli orribili tre anni deve pur essere successo, se mi sono tanto inaspettatamente divertita. Aprile è stato, per esempio, anche un paio di occhi vispi, rimasti uguali; un gattino bellissimo di cui siamo già tutti pazzi; il pane fatto in casa; una Pasqua con un sorriso forzato ma piena ugualmente d'amore e fiori di pesco; è stato famiglia e gite fuori porta; è stato il diciottesimo di un'amica a cui faccio da sorella maggiore con tutta la pallosaggine del mondo, ma che so con certezza che sarà una donna meravigliosa, da grande.
Libri
- Suite francese di Irène Némirovsky (Tempesta di giugno e Dolce).
- Non chiedere perché di Franco Di Mare.
- L'amica geniale di Elena Ferrante (scarabocchi a breve sul blog).
Tre libri uno più bello dell'altro.
Film
- Rain man - L'uomo della pioggia. Due giovanissimi Tom Cruise e Dustin Hoffman in un film che ha giustamente fatto storia.
- L'uomo che verrà, trasmesso su RaiMovie in occasione del 25 aprile, mi è sembrato proprio bellissimo come lo ricordavo. Nonostante i sottotitoli per tradurre l'emiliano a me questo film stravolge sempre, d'altra parte quando si parla di Resistenza è inevitabile.
- Roma città aperta, ogni anno lo ripropongono e ogni anno lo rivedo.
- Nessuno si salva da solo, film tratto dall'omonimo romanzo di Margaret Mazzantini. Il libro l'ho letto qualche anno fa sulla scia della bellezza di Venuto al mondo, ricordo che non mi aveva particolarmente colpita, ricordo che mi era sembrato bello, ma. Il film credo abbia rispettato bene le pagine, senza grandi stravolgimenti, con due attori che mi piacciono: Scamarcio e Jasmine Trinca. La storia di Gae e Delia esce fuori in tutta la sua passione e rabbia. Arrivo a dire che, probabilmente, incredibilmente, contro ogni previsione, a differenza di quanto accade di solito, il film mi è piaciuto più del libro.
- La famiglia Bèlier, splendido. È la storia di una famiglia di sordi dove la figlia, unica non sorda, scopre di saper cantare bene e, cosa ancora più importante, sogna di volerlo fare nella vita. Sono state, per me, due ore di leggerezza, sorrisi ed emozioni. 
Fiction e serie tv
- La dama velata, bel finale. Lino Guanciale già mi manca, come possiamo fare?
- Squadra mobile. Non potevo non provare a seguirla, considerando quanto mi piaceva Distretto di polizia ai tempi di Roberto, Mauro, Giulia e Paolo. Quando ho rivisto Giorgio Tirabassi nei panni proprio di Roberto Ardenzi credo di aver avuto un tuffo al cuore, amplificato poi dalla presenza di Riccardo (beata Valeria!).
- I Fuoriclasse 3, meno bello del solito, ma comunque piacevole. 
3 Canzoni 
Coraggio lasciare tutto indietro e andare
partire per ricominciare
che sei ci pensi siamo solo di passaggio
e per quanta strada ancora c’è da fare
amerai il finale...
2) Il bacio sulla bocca / Ivano Fossati. Non so bene come e perché, ma questa canzone l'ho ascoltata moltissime volte durante le mie passeggiate.
Stancami
e parlami
abbracciami
fruga dentro le mie tasche
poi perdonami
sorridi
guarda questo tempo
che arriva con te
guarda quanto tempo
arriva con te.
3) Il coccodrillo fa così! Sono anche una zia, io.
Sperimentazioni in cucina
- Un dolce di Pasqua fragoloso buonissimo.
- Crostini con i piselli.
- Pane fatto in casa.
- Girandole di crepes colorate.
- Panna cotta tricolore per il 25 aprile, a base di menta e fragole.
Cose creative
- Segnaposto di Pasqua: coniglietti con un Lindor al posto della pancia.
- Albero di Pasqua.
- Bicicletta a uncinetto (una faticata immensa!)
Fotografie


L'amica geniale, Elena Ferrante

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Scrivo questi scarabocchi in differita, non tanto per volontà, quanto per begli impegni e belle passeggiate, per l'estate che sta arrivando e che, ogni volta, non fa affatto mai rima con blog.
Scrivo questi scarabocchi in differita, mentre ho già comprato, ma non ancora iniziato, il seguito de L'amica geniale, perché sì, Lila e Lenù hanno conquistato anche me. Non vedo l'ora di andare a vedere che cosa succederà dopo e dopo ancora, fino alla fine.
Scrivo questi scarabocchi in differita, senza raccontare gli intrecci della trama, che in fondo sono ancora temporanei e in divenire.
In questa prima parte dell'opera la storia è ambientata nella Napoli degli anni Cinquanta, una Napoli povera dove uscire fuori dalla propria condizione sociale di nascita non è affatto facile. Lila e Lenù stringono fin dalla scuola uno strano rapporto di odio e amore, di emulazione, legate tra loro da un incredibile voglia di riscatto. Da bambine pensano che quel riscatto avverrà grazie al loro talento per la scrittura: insieme scriveranno un libro e diventeranno ricche come l'autrice di Piccole donne.
Crescendo la realtà si scontra con l'astrazione dei loro sogni e il riscatto sociale, soprattutto nella mente di Lila, si lega indissolubilmente alla concretezza dei soldi: è il denaro, solo il denaro, a dare potere e forza. Lila se ne convince ogni giorno di più, mentre Lenù continua a vivere, suo malgrado, una condizione che la pone in un contesto di superiorità nei confronti di tutti gli altri ragazzi del rione. A differenza degli altri, Lenù (narratrice interna del romanzo) non ha smesso di andare a scuola, grazie all'impegno della sua maestra, grazie alla comprensione dei genitori, grazie al suo studio intenso, così in una Napoli di degrado appena uscita dalla guerra dove anche le elementari sembrano essere un lusso, lei è addirittura arrivata a frequentare il ginnasio.
Lila non è stata altrettanto fortunata, suo padre non aveva compreso la sua fame di conoscenza e l'aveva costretta a lasciare la scuola, nonostante fosse lei la più brava di tutte. Tu sei la mia amica geniale, dice il giorno del suo matrimonio Lila a Lenù, invitandola a non smettere mai di studiare, quasi che vedesse nell'altra tutto quello che a lei era stato impedito di diventare.
Questo è l'aspetto che più di tutti mi ha colpito: le potenzialità di Lila non sfruttate per egoismo, povertà e ignoranza. Certo la scuola oggi ha delle lacune immense, mille cose che andrebbero cambiate, molte abitudini da radere al suolo, ma che bello, che bello, che tutti ci possano andare, almeno un po', almeno fino a che un ragazzo non prenda consapevolezza di non provare interesse per le materie, fino a quando capisca di voler fare altro nella vita. Che bello che tutti possano avere questa possibilità.
In quell'Italia uscita da poco dalla guerra troppe Lile hanno sofferto e pianto per aver dovuto abbandonare una cosa che non solo amavano, ma in cui eccellevano anche.
Lenù ha avuto la possibilità, per il momento ha saputo sfruttarla, ma, a dispetto di quello che le dice Lila sul finire del primo libro, per me non è lei, tra le due, l'amica geniale.
Buon proseguimento a me!

L'amica geniale, frasi [Elena Ferrante]

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Non ho nostalgia della nostra infanzia, è piena di violenza. Ci succedeva di tutto, in casa e fuori, ogni giorno, ma non ricordo di aver mai pensato che la vita che c’era capitata fosse particolarmente brutta. La vita era così e basta, crescevamo con l’obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi.

«Quando ci facciamo grandi ti voglio sposare».
Poi mi chiese se nel frattempo mi volevo fidanzare con lui. Era un po’ più alto di me, magrissimo, il collo lungo, le orecchie un po’ scostate dalla testa. Aveva capelli ribelli, occhi intensi con ciglia lunghe. Era commovente lo sforzo che stava facendo per contenere la sua timidezza. Sebbene volessi sposarlo anch’io mi venne di rispondergli:
«No, non posso».

Cominciò un periodo di malessere. Ingrassai, in petto mi spuntarono sotto la pelle due polloni durissimi, fiorirono i peli dalle ascelle e sul pube, diventai triste e insieme nervosa. A scuola feci più fatica degli anni precedenti, gli esercizi di matematica non davano quasi mai il risultato previsto dal libro di testo, le frasi di latino mi parevano senza capo né coda. Appena potevo mi chiudevo nel cesso e mi guardavo allo specchio, nuda. Non sapevo più chi ero. Cominciai a sospettare che sarei cambiata sempre più, fino a che da me sarebbe spuntata davvero mia madre, zoppa, con l’occhio storto, e nessuno mi avrebbe più voluto bene. Piangevo spesso, all’improvviso. Il petto, intanto, da duro che era diventò più grosso e più morbido. Mi sentii in balìa di forze oscure che agivano dal di dentro del mio corpo, ero sempre in ansia.

«È bello» mormorai, «parlare con gli altri».
«Sì, ma solo se quando parli c’è uno che risponde».

Mi sentii addolorata per lo sperpero, perché ero costretta ad andar via, perché lei preferiva l’avventura delle scarpe ai nostri discorsi, perché sapeva essere autonoma e invece io avevo bisogno di lei, perché aveva cose sue dentro cui non potevo entrare, perché Pasquale, uno grande d’età, non un ragazzino, di certo avrebbe cercato altre occasioni per guardarla e sollecitarla e cercare di convincerla a fidanzarsi in segreto con lui e a farsi baciare, toccare, come si diceva che si facesse quando ci si fidanzava; perché, insomma, mi avrebbe sentita sempre meno necessaria.

Per quanto mi sforzassi nelle lettere di comunicarle il privilegio delle giornate a Ischia, il mio fiume di parole e il suo silenzio mi parevano dimostrare che la mia vita era splendida ma povera di eventi, tanto da lasciarmi il tempo di scriverle ogni giorno, la sua nera ma affollata.

Nino ha qualcosa che lo mangia dentro, come Lila, ed è un dono e una sofferenza, non sono contenti, non si abbandonano, temono ciò che gli succede intorno.

«La bellezza che Cerullo aveva nella testa fin da piccola non ha trovato sbocco, Greco, e le è finita tutta in faccia, nel petto, nelle cosce e nel culo, posti dove passa presto ed è come se non ce l’avessi mai avuta».

Si guardò allo specchio sollevando un po’ il vestito.
«Sono brutte» disse.
«Non è vero».
Rise in modo nervoso.
«Ma sì, guarda: i sogni della testa sono finiti sotto i piedi».
Si girò con un’espressione improvvisa di spavento: «Cosa mi sta per succedere, Lenù?».

Fu durante quel percorso verso via Orazio che cominciai a sentirmi in modo chiaro un’estranea resa infelice dalla mia stessa estraneità. Ero cresciuta con quei ragazzi, ritenevo normali i loro comportamenti, la loro lingua violenta era la mia. Ma seguivo anche quotidianamente, ormai da sei anni, un percorso di cui loro ignoravano tutto e che io invece affrontavo in modo così brillante da risultare la più capace. Con loro non potevo usare niente di ciò che imparavo ogni giorno, dovevo contenermi, in qualche modo autodegradarmi. Ciò che ero a scuola, lì ero obbligata a metterlo tra parentesi o a usarlo a tradimento, per intimidirli.

Ciò che inferno non è, capitolo 31 // Alessandro D'Avenia

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Nel silenzio di piazza Anita Garibaldi l’aria è rimasta ferma. I minuti scorrono lenti come il sangue che esce dalla ferita alla nuca e la vita ha esattamente quel residuo di ritmo e di gocciolante consapevolezza. Sono secondi di assoluta e tremenda lucidità.
Cinque sono le cose che un uomo rimpiange quando sta per morire. E non sono mai quelle che consideriamo importanti durante la vita. Non saranno i viaggi confinati nelle vetrine delle agenzie che rimpiangeremo, e neanche una macchina nuova, una donna o un uomo da sogno o uno stipendio migliore. No, al momento della morte tutto diventa finalmente reale. E cinque le cose che rimpiangeremo, le uniche reali di una vita.
La prima sarà non aver vissuto secondo le nostre inclinazioni ma prigionieri delle aspettative degli altri. Cadrà la maschera di pelle con la quale ci siamo resi amabili, o abbiamo creduto di farlo. Ed era la maschera creata dalla moda, dalle false attese nostre, per curare magari il risentimento di ferite mai affrontate. La maschera di chi si accontenta di essere amabile. Non amato.
Il secondo rimpianto sarà aver lavorato troppo duramente, lasciandoci prendere dalla competizione, dai risultati, dalla rincorsa di qualcosa che non è mai arrivato perché non esisteva se non nella nostra testa, trascurando legami e relazioni. Vorremmo chiedere scusa a tutti, ma non c’è più tempo.
Per terzo rimpiangeremo di non aver trovato il coraggio di dire la verità. Rimpiangeremo di non aver detto abbastanza “ti amo” a chi avevamo accanto, “sono fiero di te” ai figli, “scusa” quando avevamo torto, o anche quando avevamo ragione. Abbiamo preferito alla verità rancori incancreniti e lunghissimi silenzi.
Poi rimpiangeremo di non aver trascorso tempo con chi amavamo. Non abbiamo badato a chi avevamo sempre lì, proprio perché era sempre lì. Eppure il dolore a volte ce lo aveva ricordato che nulla resta per sempre, ma noi lo avevamo sottovalutato come se fossimo immortali, rimandando a oltranza, dando la precedenza a ciò che era urgente anziché a ciò che era importante. E come abbiamo fatto a sopportare quella solitudine in vita? L’abbiamo tollerata perché era centellinata, come un veleno che abitua a sopportare dosi letali. E abbiamo soffocato il dolore con piccolissimi e dolcissimi surrogati, incapaci di fare anche solo una telefonata e chiedere come stai.
Per ultimo rimpiangeremo di non essere stati più felici. Eppure sarebbe bastato far fiorire ciò che avevamo dentro e attorno, ma ci siamo lasciati schiacciare dall’abitudine, dall’accidia, dall’egoismo, invece di amare come i poeti, invece di conoscere come gli scienziati. Invece di scoprire nel mondo quello che il bambino vede nelle mappe della sua infanzia: tesori. Quello che l’adolescente scorge nell’addensarsi del suo corpo: promesse. Quello che il giovane spera nell’affermarsi della sua vita: amori.

Sostiene Pereira, Antonio Tabucchi

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È l'estate del 1938, a Lisbona e in tutta l'Europa. C'è puzza di morte, di un futuro prossimo e pessimo che sta per avvolgere tutto e tutti.
Pereira è un vecchio giornalista che si è sempre occupato di cronaca e che all'improvviso diventa direttore (e unico autore) della pagina culturale di un modesto quotidiano portoghese. Per professione dovrebbe avere chiaramente in testa quello che sta accadendo nel suo Paese, ma invece non lo sa. Chiede continue informazioni a Manuel, un cameriere che è uno dei pochi contatti umani che mantiene, ormai. Pereira è un uomo completamente solo, parla col ritratto della moglie morta, non ha figli, la sua esistenza va avanti per inerzia, tra la letteratura francese (per cui ha una vera passione) e la sua indifferenza politica.
Sostiene Pereira che gli eventi a un certo punto abbiano preso il sopravvento su di lui e sulla sua volontà, che le cose siano successe da sole, senza che lui si sia impegnato a cercarle. Sostiene Pereira che aveva solo bisogno di un praticante che scrivesse i necrologi degli scrittori famosi per la sua pagina culturale, non aveva idea di come tutto si sarebbe evoluto. Non aveva idea che Monteiro Rossi, il ragazzo che aveva assunto in prova, amava la vita e non sapeva scrivere della morte. Non ne aveva idea. Sostiene Pereira di essersi trovato in un contesto per cui, incomprensibilmente, era incapace di dire di no a quel ragazzo, che non sarebbe mai diventato un giornalista forse, ma che, a differenza sua, combatteva l'ingiustizia e la dittatura.
Sostiene Pereiraè certamente un romanzo politico, un romanzo di denuncia, un romanzo sul modo subdolo di instaurarsi di un regime totalitario, è un romanzo di libertà e censura, ma non credo che sia tutto qui.
A me hanno colpito, più di questo, i tratti dell'uomo Pereira, così solo, così triste, così noioso, così bisognoso di affetti, così bisognoso di avere qualcuno a cui pensare, qualcuno che fosse vivo. Mi ha colpito il suo continuo pensare alla morte, come se non avesse più voglia di avere una sua vita, come se la sua vita fosse una condanna. Mi ha colpito il suo non avere niente, a parte la letteratura e il ritratto del suo amore.
Pereira è un uomo a cui alla fine ci si affeziona, perché è uno normalissimo che un giorno all'improvviso apre gli occhi e cambia tutto, non si sa fino a che punto il cambiamento sia cosciente, ma comunque accade. E la svolta è totale: un uomo qualunque, pauroso malato e sudaticcio fino al giorno prima, arriva perfino a beffare il potere. Chi l'avrebbe mai detto.
Sostiene Pereira è stato il mio primo incontro con la scrittura di Antonio Tabucchi, di cui ho sentito tanto parlar bene anche da due giovani autori italiani che leggo sempre molto volentieri: Paolo Di Paolo e Andrea Bajani, che alla morte di Tabucchi ha dedicato anche Mi riconosci.

Ho iniziato il libro senza avere chiaro in mente di che cosa parlasse, non lo conoscevo molto benché ormai sia considerato un classico, nonostante la sua giovane età.
Lo stile con cui Tabucchi ha composto quest'opera, il suo continuo narrare la storia in terza persona ripetendo spesso Sostiene Pereira che, come se tutta la narrazione fosse una specie di interrogatorio, mi ha davvero colpita, spingendomi ad andare avanti con curiosità per capire di fronte a quale tribunale stesse sostenendo la propria tesi il vecchio Pereira. In realtà il mio dubbio è rimasto senza una soluzione certa, a me piace pensare che Pereira confessi le proprie azioni semplicemente a se stesso oppure che lo faccia davanti alla Storia, mostrando come abbia capito, col tempo e suo malgrado, che la dittatura esisteva davvero anche in Portogallo e che, pertanto, andava combattuta.

Sostiene Pereira, frasi [Antonio Tabucchi]

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Sostiene Pereira che da principio si mise a leggere distrattamente l'articolo, che non aveva titolo, poi macchinalmente tornò indietro e ne ricopiò un pezzo.
Perché lo fece? Questo Pereira non è in grado di dirlo. Forse perché quella rivista d'avanguardia cattolica gli dava fastidio, forse perché quel giorno era stufo d'avanguardie e di cattolicismi, anche se lui era profondamente cattolico, o forse perché in quel momento, in quell'estate sfavillante su Lisbona, con tutta quella mole che gli pesava addosso detestava l'idea della resurrezione della carne, ma il fatto è che si mise a ricopiare l'articolo, forse per poter buttare la rivista nel cestino.
Sostiene che non lo ricopiò tutto, ne ricopiò solo alcune righe che sono le seguenti e che può documentare: «II rapporto che caratterizza in modo più profondo e generale il senso del nostro essere è quello della vita con la morte, perché la limitazione della nostra esistenza mediante la morte e decisiva per la comprensione e la valutazione della vita».

Pereira cominciò a sudare, perché pensò di nuovo alla morte. E pensò: questa città puzza di morte, tutta l'Europa puzza di morte.

La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.

Sa soltanto che capì di essersi messo nei guai e che doveva parlarne con qualcuno. Ma questo qualcuno non c'era in giro e allora pensò che ne avrebbe parlato con il ritratto di sua moglie quando sarebbe ritornato a casa. E infatti così fece, sostiene.

Marta lo guardò e sorrise. So che lei è stato un grande appoggio per Monteiro Rossi e suo cugino, disse Marta, dottor Pereira lei è stato veramente magnifico, dovrebbe essere dei nostri. Pereira sentì una lieve irritazione, sostiene, e si tolse la giacca.
Senta signorina, replicò, io non sono né dei vostri né dei loro, preferisco fare per conto mio, del resto non so chi sono i vostri e non voglio saperlo, io sono un giornalista e mi occupo di cultura, ho appena finito di tradurre un racconto di Balzac, delle vostre storie preferisco non essere al corrente, non sono un cronista. Marta bevve un sorso di vino di porto e disse: noi non facciamo la cronaca, dottor Pereira, e questo che mi piacerebbe che lei capisse, noi viviamo la Storia.

È Monteiro Rossi che ha conosciuto?, chiese il dottor Cardoso. È il mio praticante, rispose Pereira, il ragazzo che mi scrive gli articoli che non posso pubblicare. E lei lo cerchi, replicò il dottor Cardoso, come le ho detto prima, lo cerchi, dottor Pereira, lui è giovane, è il futuro, lei ha bisogno di frequentare un giovane, anche se scrive articoli che non possono essere pubblicati sul suo giornale,la smetta di frequentare il passato, cerchi di frequentare il futuro. Che bella espressione, disse Pereira, frequentare il futuro, che bella espressione, non mi sarebbe mai venuta in mente.

Non so perché faccio tutto questo per lei, Monteiro Rossi, disse Pereira. Forse perché lei è una brava persona, rispose Monteiro Rossi. È troppo semplice, replicò Pereira, il mondo è pieno di brave persone che non vanno in cerca di guai. Allora non lo so, disse Monteiro Rossi, non saprei proprio. Il problema è che non lo so neanch'io, disse Pereira, fino ai giorni scorsi mi facevo molte domande, ma forse è meglio che smetta di farmele.
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